IL MARE NON BAGNA NAPOLI di Anna Maria Ortese

“Il mare non bagna Napoli apparve la prima volta nei Gettoni della Einaudi, con una presentazione di Elio Vittorini. Era il ’53. L’Italia usciva piena di speranze dalla guerra, e discuteva su tutto. A causa dell’argomento, anche il mio libro si prestava alle discussioni: fu giudicato, purtroppo, un libro «contro Napoli». Questa «condanna» mi costò un addio, che si fece del tutto definitivo negli anni che seguirono, alla mia città. E in circa quarant’anni – tanti ne sono passati da allora – io non tornai più, se non una volta, per qualche ora, e fuggevolmente, a Napoli. A distanza, appunto, di quattro decenni, e in occasione di una sua nuova edizione, mi domando se il Mare è stato davvero un libro «contro» Napoli, e dove ho sbagliato, se ho sbagliato, nello scriverlo, e in che modo, oggi, andrebbe letto. La prima considerazione che mi si presenta è sulla scrittura del libro. Pochi riescono a comprendere come nella scrittura si trovi la sola chiave di lettura di un testo, e la traccia di una sua eventuale verità. Ebbene, la scrittura del Mare ha un che di esaltato, di febbrile, tende ai toni alti, dà nell’allucinato: e quasi in ogni punto della pagina presenta, pur nel suo rigore, un che di «troppo»: sono palesi in essa tutti i segni di una autentica «nevrosi». Quella «nevrosi» era la mia. […] Erano molto veri il dolore e il male di Napoli, uscita in pezzi dalla guerra. Ma Napoli era città sterminata, godeva anche di infinite risorse nella sua grazia naturale, nel suo vivere pieno di radici. Io invece mancavo di radici, o stavo per perdere le ultime, e attribuii alla bellissima città questo spaesamento che era soprattutto mio. Questo orrore – che le attribuii – fu la mia debolezza».”

Chi non legge Anna Maria Ortese rinuncia alla bellezza | Roba da DonneÈ così che Anna Maria Ortese decide di introdurre la ripubblicazione de Il mare non bagna Napoli per Adelphi avvenuta nel 1994, raccolta composta da cinque racconti – Un paio di occhiali, Interno familiare, Oro a Forcella, La città involontaria e l’articolato e lunghissimo Silenzio della ragione – grazie alla quale le arrivò una notorietà transitoria, non immune da forti polemiche: le critiche mosse nel libro le costarono ben più che un addio all’amata città adottiva (la Ortese era nata a Roma e cresciuta, a causa della guerra e delle vicende familiari, tra la Puglia, la Basilicata e la Libia, sino a stabilirsi a Napoli nel 1945): la città reagì con indignazione al dolore e allo squallore ad essa associati nel ritratto povero e disperato che l’autrice le dedicò. Non meno si indignarono gli amici e intellettuali raccolti intorno alla rivista Sud, periodico nato “contro ogni classificazione, numerazione, sezionamento, contro ogni politica suddivisione del sentimento, contro ogni barriera doganale” (come si legge nell’editoriale del suo direttore Prunas). La stessa Ortese aveva fatto parte della redazione, finché non le era sembrato che “le discussioni lasciavano il posto alle conversazioni; la politica diventava un motivo per ritornare sul problema di un impiego; le preoccupazioni di una carriera o solo una modesta sistemazione personale si alternavano in una proporzione sempre più forte ai problemi e all’avvenire del giornale e l’indipendenza della cultura […] cadeva in una piazza sempre meno popolata e sicura.” Eppure, malgrado la presa di distanza da quel “comunismo (che) a Napoli, in quegli anni, era un liberalismo di emergenza,” le restò sempre molto più che un ricordo. Nonostante ciò, la scrittrice non rinunciò mai ad esporre apertamente posizioni critiche nei confronti del mondo letterario al quale sentiva di avere diritto di appartenere, ma dal quale era ingiustamente respinta. In effetti, è solo in tarda età, esattamente nel 1993 a 79 anni – ad appena cinque anni di distanza dalla sua morte – che la Ortese riuscì ad avere un maggior successo con Il Cardillo Addolorato, edito da Adelphi, casa editrice che già dal 1986 aveva cominciato a ristampare tutte le sue opere in modo da formare un corpus rivisitato e organico in collaborazione con l’autrice stessa.

Ne Il mare non bagna Napoli, la città è raffigurata come distrutta, ferita, allucinata, un luogo in cui si prova un senso di impossibilità ad accettare il reale e l’immenso male che lo pervade. Il lettore è posto nelle condizioni di intraprendere un viaggio attraverso l’orrore di un mondo troppo spesso dimenticato, ma da cui è impossibile distogliere lo sguardo. Un libro di racconti crudelmente veri, storie di sofferenza, di miseria morale e di disillusa descrizione della realtà. I primi due capitoli sono scritti come racconti letterari, i rimanenti tre, invece, nello stile dei reportage giornalistici.
Un paio di occhiali mostra una città ancora sotto le macerie, dove Eugenia, una ragazzina di dieci anni, vive insieme alla famiglia in un quartiere povero e degradato. La protagonista ha un difetto alla vista che la porta a vedere la realtà in modo diverso rispetto agli altri finché un giorno non arrivano “gli occhiali nuovi” che la costringono a prendere coscienza di com’è veramente il mondo che la circonda, un mondo fatto di povertà e miseria morale.

Interno familiare è il ritratto di una donna che non ha mai conosciuto l’amore. La vicenda si svolge durante la vigilia di Natale dove, in una grande casa nel quartiere Monte di Dio, la zitella Anastasia Finizio, ormai trentenne, scopre che il giovane di cui era stata innamorata da giovane è tornato in città dopo numerosi anni di assenza. Inizia così un viaggio introspettivo fra ricerche affannose e rimpianti. La rinuncia finale segna la sua sconfitta e il tragico ritorno alla vita di prima, scandita dal ritornello “casa e lavoro, lavoro e casa”.

Oro a Forcella e La città involontaria descrivono la povertà di Napoli nell’immediato dopoguerra; il primo ambientato sul Monte dei Pegni del Banco in via San Biagio dei Librai; il secondo è invece una discesa agli inferi fra i senzatetto nel III e IV Granili, casermoni dalla mole surreale dove a stento penetra la luce del sole.

L’ultimo racconto, Il silenzio della ragione, è un reportage lapidario e cinicamente spassionato sugli intellettuali partenopei – amici della Ortese – legati alla rivista Sud fra cui Luigi Compagnone, Pasquale Prunas, Ermanno Rea, Raffaele La Capria. All’epoca, il racconto scatenò grandi polemiche e dibattiti e contribuì a rendere celebre il libro. Nel racconto, l’autrice prospetta una ricerca che superi i limiti della ragione illuministica: la ragione significa infatti saper vedere la verità oltre le apparenze del reale.

Una tensione morale e una profonda visione mistica della realtà pervadono l’opera di Anna Maria Ortese: l’uomo è un tutt’uno con l’ambiente che lo circonda ed è per questo chiamato a riparare al male che c’è nel mondo e di cui lui stesso è spesso la causa. In questo contesto, le sue storie sono raccontate attraverso una documentazione neorealistica in grado di assumere una carica lirica e simbolica. Le descrizioni dettagliate hanno la capacità di dilatare i luoghi e di alimentare la percezione del fantastico e dell’irreale: l’opera letteraria mette in atto tutto il proprio potere di disvelamento suggerendo, attraverso una narrazione visionaria ma precisa, l’esistenza di una realtà più complessa. Attraverso la costruzione della “menzogna” narrativa, che vuole però il travestimento puntuale del possibile, ci si avvicina così, forse, alla comprensione del mistero.

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